Voy tirando

Scrivere per non pensare

Mese: marzo, 2015

La città in cui vivo.

Vi è mai saltata addosso la voglia di descrivere al resto del mondo la città in cui vivete, con parole vostre, prendendo spunto dai tre luoghi più simbolici? No? Mai? Nemmeno a me, almeno non fino ad ora. Che cos’è cambiato dunque? Niente, semplicemente mi annoio a morte e ho voglia di scrivere.

La città in cui vivo non è quella in cui sono nato. Potrebbe sembrare sorprendente a chi tra voi è nato a Roma o a Milano, ma a noi nati in questa grande palude tra gli Appennini e le Alpi, tra Milano e l’Adriatico, capita molto spesso. Questa palude ci mette addosso sin da subito una grande voglia di scappare, ma allo stesso tempo i suoi miasmi ci tolgono il fiato, annebbiano la mente e ci impediscono, quando finalmente tentiamo la fuga, di uscire dai suoi confini. Ed è così che finiamo per ritrovarci in una città che non è la nostra, ma non è nemmeno la loro, dove la gente sembra sempre in prestito, dove la frase più gettonata, dopo “Morte al fascio!” e “Tutta colpa dei negri!” è “Appena mi laureo mando affanculo tutti e scappo da questa fogna!”

La mia città è lambita da un fiume, ed è da lì che voglio iniziare a parlarvene, dal Parco di Po’. Quest’area verde in riva al fiume deriva il suo nome dal fatto che vi si possa fare e trovare di tutto e un po’. In riva all’acqua troverete i canottieri che si allenano duro ogni giorno per essere il meglio del meglio nella vana speranza di arrivare un giorno alle olimpiadi, vincere una medaglia e se Dio vuole guadagnare finalmente abbastanza da potersene andare a morire in un posto più alla moda (o per lo meno più profumato). Sui prati verdi, tra le piante, potrete osservare la gente comune che bivacca nelle lunghe domeniche estive, quando la noia è tale che anche mangiare cibo spazzatura su di un prato spelacchiato comincia a sembrare la svolta della vita. Più distanti dal fiume vi sono le sedi delle società dei canottieri, grandi parchi divertimenti per famiglie muniti di piscine e campi per i più comuni sport estivi, dove gente che non ha mai praticato nemmeno il bridge agonistico può sentirsi sportiva, previo pagamento di un’alta quota d’iscrizione.

Se riuscite a superare le insidie del parco, siete sulla buona strada per arrivare in centro, anche se vi rimane ancora un ultimo sforzo da fare: trovare parcheggio. Uno dei posti più gettonati per la bisogna era, qualche anno e qualche riforma della circolazione stradale fa, Piazza L’Odi. Questa piazza di forma rettangolare con al centro un piccolo spazio alberato prende nome dai forti sentimenti negativi che suscita in chiunque vi transiti, in special modo se è in cerca di parcheggio. Si tratta dell’ultimo spazio utile prima della ZTL, ed è sempre piena. Molti si fanno tentare dalla sua vicinanza al centro, salvo poi doversene andare a mani vuote bestemmiando Santi e Madonne. Col suo animalesco appeal, poi, spinge i poveri automobilisti ad atti che in altri luoghi non farebbero, come parcheggiare in uno spazio così stretto che rende impossibile la discesa dall’automezzo, a meno che non usino il baule. La delusione è cocente, al ritorno, quando ritrovano sulle portiere incisioni a bulino che prima non c’erano.

In effetti la noia e la voglia di scrivere non erano poi così grandi, e mi accorgo di essere già stanco di questo gioco, ma vi ho promesso tre luoghi: ecco che arriva il terzo. Se siete riusciti a parcheggiare, o siete venuti a piedi, molto probabilmente finirete per ritrovarvi tutti insieme a Piazza Strazivari. Di forma rettangolare, pavimentata in due colori, questa grande piazza è il cuore della città. Proprio qui gli abitanti si danno appuntamento nei giorni di festa, salvo poi arrivare alla chetichella ad orari diversi, infliggendo agli amici lo strazio dell’attesa in un luogo deserto, spazzato dal vento in inverno e battuto dal sole in estate. Proprio qui finiscono le più promettenti storie d’amore, quando i giovani, stanchi di aspettare la morosa che avrebbe dovuto arrivare due ore prima, decidono di impegnare l’anello di fidanzamento in un compro oro e spendere il ricavato in coca e puttane. Proprio qui è installata la statua di Antonio Strazivari, noto spacciatore di sostanze stupefacenti del ‘600, raffigurato nell’atto di avvicinare un innocente giovincello allo scopo di traviarlo, utilizzando la sua ben nota tattica: “Se fumi cotesto spinello, guarda un po’ che bel violino che ti regala lo zio Antonio!”

That’s so ’90s!

Ho sempre pensato di essere “diverso” come una pera Abate in un cesto di pere Williams, ma sono sicuro che tutti noi nati negli anni ’80 siamo uguali almeno in una cosa: i sentimenti coi quali ci approcciamo alle serate anni ’90 nei locali. In genere ci andiamo con la stessa mentalità con cui andremmo a visitare il mausoleo di Lenin o quello di Mao: essere sicuri che siano morti. Inutile negarlo, a nessuno che ci sia passato attraverso da sveglio verrebbe mai in mente di rivivere quegli anni fatti di guerre, droga e becero consumismo. Anche per questo ci andiamo, perchè ricordare quanto facessero schifo ci aiuti a non ripetere più certi errori.

C’è poi in noi che quegli anni li abbiamo vissuti un certo elitario snobismo che ci spinge a partecipare a queste serate per ridere di tutti coloro che, essendo nati troppo tardi, vogliono nondimeno tentare di catturare lo spirito di quei tempi. Li osserviamo aggirarsi in locali bui, con addosso camicie di finta flanella o T-shirts monocrome, tentando di ballare la peggio musica commerciale dei primi anni 2000, incapaci di distinguere la differenza tra quella e la peggio musica commerciale anni ’90, e ci sentiamo un po’ come Danilo Mainardi di fronte ad una nidiata di pinguini imperatore che muovono i primi passi tra branchi di trichechi ed acque infestate da orche assassine.

Una cosa sempre molto divertente è prendere nota dell’abisso culturale che divide la nostra generazione da quelle nuove pressochè in tutto. Premesso che sì, sono probabilmente un po’ troppo eccentrico, nondimeno quando mi trovo in certe situazioni metto il pilota automatico e lascio che la curiosità faccia il resto. Capità così che io veda una ragazza con un triangolo equilatero, con simboli inscritti, tatuato su di un braccio, e dopo averle afferrato il polso per vederlo meglio le chieda se il triangolo sia il simbolo alchemico del fuoco o quello dell’acqua (che per chi non lo sapesse sono triangoli equilateri che differiscono solo per la posizione degli angoli sul piano cartesiano). Accade allora che mi senta rispondere che no, sono i Doni della Morte (tu quoque, Harrius). L’unica cosa che sembra accomunare veramente noi e loro è l’alcool: bere tanto, bere forte, bere in fretta.

Molto interessante è anche confrontarsi con la moda anni ’90 immaginata dai ragazzi di oggi. Se alcuni se la cavano cercando consigli su internet, altri sbagliano clamorosamente decennio e sembrano usciti da “Happy Days”. Non si vede mai una maglietta da rapper, nè una Nike Air, nemmeno tra i neri, e non va certo meglio alle bandane ed alle giacche di pelle dei rockers à la Guns & Roses o al look punk-rock che tanto piaceva alla mia generazione. I giovani d’oggi, pensando alla moda di quel periodo, hanno in mente solo i Nirvana. L’unica cosa che impedisce a queste serate di diventare dei raduni di sosia di Kurt Cobain (perchè sì, Krist Novoselic e Dave Grohl quanto a vestiario non se li fila nessuno) è il fatto che il giovane moderno nella maggior parte dei casi se ne sbatte del tema e va vestito normalmente.

Potrei anche andare avanti parlando del linguaggio, e di come e di quanto sia cambiato rendendo impossibile catturare realmente lo spirito di un’epoca così recente eppur così lontana, creando a volte divisioni insanabili tra le generazioni, ma finirei per annoiarvi con considerazioni di stampo orwelliano su come il linguaggio influenzi i pensieri e vice versa. L’unica considerazione degna di essere riportata, a conclusione di questo excursus, è quella che per prima ci viene in mente il mattino seguente, appena svegli: “ma negli anni ’90 questo fottuto mal di testa non c’era!”

Birdman: la recensione.

Se avete letto la recensione di “Vizio di forma”, saprete già che quello era il primo dei due film che avrei voluto vedere Domenica. Birdman, con inizio alle ore 20:10, era il secondo. La storia di come sono giunto a volerlo vedere è strana, ma si può facilmente riassumere con due parole: peer pressure. Ebbene sì, la maggior parte dei miei amici, almeno di quelli con cui mi sento più spesso, lo ha visto, e tra il fatto di voler avere qualche argomento in più di cui chiacchierare con loro ed il fatto che quasi tutti mi hanno detto “non ti piacerà, è troppo strano!”, la voglia di vederlo è sbocciata dentro di me come un piccolo funghetto alle prime piogge d’autunno.

Poi vabbè ha beccato anche degli Oscar: come persona che ha un blog sono praticamente obbligato a vederlo e recensirlo.

Per descrivere Birdman in due parole, userei “interminabile pianosequenza”. Davvero, il film dura 119 minuti, e 110 circa sono in pianosequenza. Che poi non è proprio un vero pianosequenza, ma un trucco usato in fase di montaggio. Ciò non toglie che nei 110 minuti centrali del film non vi sia uno stacco che sia uno. La telecamera gira e rigira come un colibrì impazzito tra attori ed ostacoli, senza mai un taglio od una dissolvenza. All’inizio l’effetto è straniante, e può provocare il mal di mare, ma col tempo si rimane risucchiati ed affascinati da un tale sforzo da parte di regista, attori e tecnici. Anche se non è un singolo pianosequenza, per dare l’idea che lo sia si sono dovuti sobbarcare il doppio del lavoro rispetto a un film normale. Probabilmente è questo che gli è valso l’Oscar.

La storia parla del riscatto sociale ed artistico di un attore ormai fallito che è diventato famoso vent’anni prima interpretando il ruolo di un supereroe a tema animale (Birdman). Già qui andiamo oltre il cinema e sconfiniamo nella realtà che plasma il cinema che plasma la realtà, poichè Michael Keaton, un attore fallito che ha interpretato vent’anni fa Batman, torna ad essere un grande attore interpretando un attore fallito che interpretò Birdman vent’anni fa e che torna ad essere famoso interpretando una pièce teatrale a Broadway. Se vi stavate chiedendo il perchè di un film in pianosequenza, eccolo spiegato: il cinema che imita il teatro. Detto questo, l’intreccio è quello tipico delle commedie, e fa il suo lavoro pur non regalando alcun colpo di scena.

Gli attori vengono spremuti al massimo dal film, riuscendo a dare il meglio di sè. Spiccano tra tutti il summenzionato Keaton ed Edward Norton, che quasi condividono il ruolo da protagonista: si potrebbe parlare di un protagonista diviso, poichè se è verso che Norton sembra più essere un antagonista, è anche vero che senza il suo personaggio quello di Keaton non potrebbe dare nulla. Non deludono comunque i comprimari, pescati tra attori ingiustamente famosi ma bravi come Zach Galifianakis ed altri meno conosciuti ma non meno adatti come Andrea Riseborough.

Un buon film si riconosce anche dall’uso dei costumi e dei colori, che in Birdman sono giustamente sottotono, a sottolineare il fatto che quella che viene descritta è una storia realistica. Tranne che durante le allucinazioni, dove effetti speciali (esplosioni) e stranezze (un uccello meccanico enorme) abbondano. La cosa più interessante del comparto visivo, oltre il falso pianosequenza, è l’utilizzazione di New York come sfondo per certe scene, che presentano una città viva e movimentata, invogliando lo spettatore a soffermarsi sui particolari.

In conclusione, si tratta di un film per tutti, anche se non a tutti piacerà. Io l’ho molto apprezzato, ma un film senza stacchi, nel quale va in scena l’evoluzione psicologica di un gruppo di personaggi attraverso la ripetizione ossessiva di uno spettacolo teatrale, non lo consiglierei certo a chiunque. Se avete dei soldi da spendere, però, vi consiglio di investirceli, perchè a dispetto dei gusti dei singoli credo sia impossibile trovare un film che sia oggettivamente migliore, quest’anno.

 

Vizio di forma: la recensione del film (per quella del libro dovrete aspettare a lungo).

Il piano per Domenica era abbastanza semplice: recarci al nostro multi-sala di riferimento alle 14:15 ed ivi rimanere fino a sera inoltrata, guardando due film con una pausa cena in mezzo. Prima che mi accusiate di essermi venduto alle multinazionali del cinema preconfezionato, vi svelo che non amo particolarmente i cinema periferici con molte sale, e che finchè ho potuto sono andato al cinema situato nel centro città. Purtroppo la situazione socio-politico-economico-cinematografica si è evoluta in questo senso.

Il primo film che avevamo in programma, con inizio alle ore 15:00, era “Vizio di forma”: trattasi, almeno secondo il trailer, di una specie di film noir psichedelico ambientato negli anni ’70, con Joaquin Phoenix nel ruolo del protagonista (manco a dirlo, un investigatore privato). Detto così sembra tutto e niente, ma se ci aggiungiamo che la sceneggiatura è tratta da un libro di Thomas Pynchon appare subito chiaro che le probabilità che il film sia interessante sono alte.

Comincerò parlandovi della trama. La buona notizia è che una trama c’è. La cattiva notizia è che si fa molta fatica a trovarla, ed a seguirla una volta trovata. L’ottima notizia è che non ce n’è bisogno. Dopo i primi cinque minuti passati a chiedervi chi siano i personaggi e cosa facciano per vivere, domande che spesso rimarranno senza risposta, sarete risucchiati in un vortice di sesso, droga e musica psichedelica che vi farà dimenticare marginalia quali trama e caratterizzazione dei personaggi. A quanto ho capito, il film tratta di un investigatore privato degli anni ’70, Larry “Doc” Sportello (nome azzeccato, tra le sportellate che si becca e le droghe che si autoprescrive), che si trova invischiato in un caso particolarmente strano. Dopo mille peripezie e mille joints riesce a saltarne fuori. Se volete farvi un’idea pensate a “Il Grande Lebowski” ma con più sesso, più droga, più morti, più casino.

Poichè la trama si nasconde bene e si complica ancora meglio, spostiamoci verso ambiti più comprensibili. Perliamo dunque della fotografia, dei costumi e dell’ambientazione in genere. Tutto cospira per rendere questo film particolarmente bello da un punto di vista visuale. I costumi e gli oggetti di scena evocano molto bene il 1970, i colori sono selezionati per evocare quel senso di lisergica spensieratezza in cui nuotano i protagonisti e le ambientazioni sono sfruttate al meglio per rendere il tutto credibile. Ho detto nuotano non a caso: è un film denso, come il fumo delle sigarette che compaiono in ogni inquadratura.

Il cast è accuratamente selezionato per riuscire a trasmettere determinate sensazioni. Difficile immaginare una madre eroinomane migliore di Jena Malone, con quello sguardo a metà tra la follia e la malattia mentale, o un dentista erotomane più convincente di Martin Short, che pippa cocaina dalla scrivania come un professionista. Gli sguardi di Joaquin Phoenix quando la realtà intorno a lui sembra perdere ogni senso meritano poi un premio a parte.

Il film nel complesso è molto lento, ma è difficile dire se sia un difetto, poichè risulterebbe difficile parlare di un mondo di drogati sull’orlo di una crisi di nervi mantenendo un ritmo più alto. Di certo per come è strutturato ha molto più in comune con i vecchi noir che con i moderni film polizieschi d’azione. La tensione a volte latita, a causa della suddetta lentezza e della trama completamente non lineare, che potrebbe spingere gli spettatori meno determinati a lasciar perdere gli altri elementi e concentrarsi solo sulla parte visiva, di gran lunga la più coerente.

A me è piaciuto molto, forse perchè amo le droghe e il sesso gratuito. E l’alcool, amo anche l’alcool! A voi magari non comunicherà nulla, o peggio ancora farà orrore. Ci sta, è un film complicato, difficile da digerire. Non è per tutti, soprattutto non è per i bambini. L’unica cosa che vi chiedo è: dategli una possibilità, non credo ve ne pentirete.

Se proprio non riuscite a mandarlo giù a secco, un bicchiere di whisky e un sacchetto di canapa sono la soluzione migliore.