Voy tirando

Scrivere per non pensare

Mese: dicembre, 2013

Lo Hobbit: la Desolazione di Smaug: la (slegatissima) recensione

Altro giro, altro regalo, altro filmone di tre ore il mercoledì sera. Arriviamo (io e l’insolita Marjo) al cinema coi biglietti prenotati, salvo scoprire che in realtà non sono prenotati, ma per puro caso possiamo averne altri due ugualmente decenti. Prendiamo posto in una sala apparentemente vuota, in realtà piena di malati di Ritardo Cronico, una malattia gravissima ed incurabile che obbliga chi arriva al cinema in orario a dover spostare giacca, pop-corn, caramelline e birra ed a stringersi perché “Oh, ma questo è il nostro posto!”, e di Evitatori di Trailer,  una setta di monaci guerrieri specializzati nel ninjare al proprio posto quattro secondi e mezzo prima dell’inizio del film, quando i trailer sono finiti e la sala è buia come lo stomaco di un capodoglio in immersione.

Finalmente il valium film inizia.

Lo Hobbit: la Desolazione di Smaug non è un film come gli altri, soprattutto se con “altri” intendete quelli della trilogia “Il Signore degli Anelli”. Con essi condivide il grande sfoggio di effetti visivi, coreografie, costumi ed altre eye-candies, ma a differenza di essi appare fin dall’inizio abbastanza privo di anima. La prima inquadratura, nella quale vediamo apparire Peter Jackson, lercio e confuso, che sgranocchia una carota con sguardo ebete, è una buona indicazione di ciò che seguirà.

La trama, per chi fosse interessato a saperne qualcosa, si riduce ad una sequela di combattimenti ed avventure picaresche ben coreografate, la maggior parte delle quali non è tratta dal libro originale. A tenerle insieme, il desiderio dei nani di raggiungere la Montagna Solitaria. Lo spettatore se ne dimentica dopo pochi minuti, sommerso in un’orgia di effetti speciali stupefacenti, anche se a volte ridicoli: la scena in cui un nano schiaccia un migliaio di orchi rotolando loro addosso con una botte, per poi tirar fuori braccia e gambe e stenderne un altro centinaio a colpi di ascia/kung-fu è più adatta ad un film Boldi/De Sica che ad uno con aspirazioni epiche come questo.

Vanno poi aggiunte tutte le scene e le sotto-trame che non solo non fanno parte del libro, ma non fanno nemmeno parte del corpus tolkieniano.

Legolas che compare dal nulla, al solo scopo di innamorarsi di un’elfa inventata di sana pianta dal regista per aver modo di inserire un’avventura romantica nel film. Per la cronaca, l’elfa ama un nano, e Legolas finisce relegato nella famigerata friendzone.

La lunga lotta con il drago, altra perla inventata dal regista per far cassa: un drago che si sveglia, bruciacchia una città e viene abbattuto non tira, meglio rimpolpare il tutto con un’ora di lotta senza senso tra le miniere. Le motivazioni del drago poi sono risibili: è incazzato nero coi nani e, pur avendoli alla propria mercé, decide di piantarli lì per andare a bruciare una città nella quale i nani potrebbero aver pernottato tempo prima. Io mi immagino la stessa fredda logica utilizzata in un film sulla mafia:

Boss: Quello stronzo di Tony Facciadimmedda mi ha rotto i cabbasisi!

Picciotto: Non si preoccupi, lo abbiamo preso e portato in un luogo sicuro. Attendiamo solo un suo ordine.

Boss: Bravo, ora potremo far saltare la Mole Antonelliana! Ho sentito che Tony ci andò in gita nel ’72!

Come ogni medaglia ha due facce però, anche questo film non è completamente sbagliato. Degli effetti speciali e dei costumi ho già detto. Mi rimangono alcune parole da spendere sugli attori.

Il film è un film corale, nonostante sia Bilbo il motore principale dell’azione, colui che letteralmente apre le porte al proseguimento della storia, ed è molto difficile dare la colpa della buona recitazione che in effetti si può trovare in questo film a qualcuno in particolare. Tralascerò dunque gli attori in carne ed ossa per concentrarmi sul nuovo, scintillante attore in grafica computerizzata: Smaug il drago, ovverossia per noi italiani Luca Ward. Diversamente da quanto visto nella precedente trilogia, dove il principale attore computerizzato era di forma umanoide, in questo film le difficoltà aumentano a causa delle forme serpentine della bestia. Il reparto effetti speciali svolge comunque un egregio lavoro, sia nel rendere le movenze del corpo sia nel far muovere in maniera simile a quella umana la bocca del drago. L’altra metà della performance è data dal doppiatore, che nell’originale è Benedict Cumberbatch. Il nostro Ward dà un’ottima prova di sé in questo ruolo, dando al drago personalità e profondità non soltanto vocale.

Se non avete letto il libro, questo film non sarà per voi altro che un generico film d’azione di ambientazione fantasy, con pochi momenti morti e ancora meno momenti significativi.

Se avete letto il libro, vi incazzerete come un lavavetri romeno ad una rotonda.

Tutto il resto è noia.

‘Tis the most sorrowful time of the year…

Si avvicina di nuovo quel periodo dell’anno, quello in cui i tre Re seguono la stella fino ad una mangiatoia, quello in cui i bambini trovano I regali sotto l’albero, quello in cui i neopagani si lanciano in strani rituali legati al solstizio d’inverno. In una parola, si avvicina il Natale!

Lungi da me l’analizzare i come ed i perché di una tale festa, che la maggior parte della gente di questo mondo considera un momento sacro, per una ragione o per l’altra, vorrei invece lanciarmi in un piccolo gioco di decostruzione dell’allegria natalizia. Perché a Natale siamo tutti più allegri e più buoni, giusto? Non proprio…

Iniziamo dall’evento principale: la nascita di Gesù. Un evento allegro, l’inizio di qualcosa di bello, anche per i non cristiani. A guardarlo bene però sono tante le cose che non tornano. Una ragazza incinta, col suo convivente (o marito, non si sa bene), costretti ad attraversare la Palestina d’inverno (mi dicono dalla regia che l’inverno palestinese ha poco da invidiare a quello europeo) per un fottuto censimento del cazzo. Una cosa così importante che se non ci fosse capitato in mezzo Gesù Cristo non ne avremmo mai saputo nulla. Non solo: arrivati a destinazione, non c’è nemmeno una stanza libera, e la maggior parte delle stalle sono pure piene di gente. Son costretti ad occupare una grotta, manco fossero degli squatter qualunque. Non mi sembra una situazione molto allegra. I Magi poi portano oro, incenso e mirra: nessuno pensa di portare un maglione o un sacchetto di carbonella. Se poi ti capita in mano il calendario 2014, è un attimo ricordarsi che tra quattro mesi il bambinello ce lo ritroviamo in croce…

Ci sono poi un sacco di eventi secondari a ricordarci quanto la vita sia degna di essere vissuta. La programmazione televisiva natalizia. Perché vedere per la trentesima volta “Il Piccolo Lord” è proprio quello che ci vuole per riposare la mente stanca! L’invasione della pubblicità. Perché anche se hai un mutuo a tasso variabile, tua moglie si merita un anello di Tiffany per le feste! La corsa consumistica ai regali. Perché il tuo vicino di casa disoccupato può anche morire di freddo nel suo monolocale ormai senza luce e gas, ma tu devi assolutamente avere il nuovo iPad! La gara degli addobbi. Perché niente dice “Pace in terra agli uomini di buona volontà” come un abete di trenta metri carico di lucette e variopinte palle di polistirolo: i barboni possono mangiare i sassi! La cena della vigilia con tutta la famiglia. Sarebbe anche una bella cosa, se i partecipanti non diminuissero ogni volta, chi morto e chi sparito in qualche imprecisato ospizio…

Ogni anno l’illusione natalizia diventa sempre più difficile da sostenere, e nella mente risuonano le parole di W. B. Yeats:

The darkness drops again; but now I know
That twenty centuries of stony sleep
Were vexed to nightmare by a rocking cradle,
And what rough beast, its hour come round at last,
Slouches towards Bethlehem to be born?

From L to M

I just want to tell you I’m so sorry
For all the things I said to you last night
You were kind, you told me not to worry
But all I wanted was to pick a fight.

“I don’t believe you”, I said, “the least bit,”
“And I won’t buy your smiles, for they are fake!”
“Your mind is dull, your love’s a shallow pit,”
“And for my soul you are a constant ache!”

The more I look at it, the more I know
It wasn’t about you, ‘twas about me
I wanted to put up a little show
Your presence was an accident, you see…

Please please please, don’t give up on us yet please
Let’s start anew, I’m begging on my knees.

The Hunger Games: La Ragazza Di Fuoco: la (smorta) recensione

Mercoledì sera, finalmente, ho raccattato Marta (mia usuale compagna di sventura cinematografica) e sono andato a vedere “The Hunger Games: La Ragazza Di Fuoco”. Il giorno infrasettimanale non è stato scelto a caso: essendo due cinefili (pure cinofili) lavoratori, ed avendo vite sociali divergenti, abbiamo trovato un punto di contatto nel fatto che al mercoledì il cine costa 2 euri in meno.

Dopo aver sfidato il freddo polare, dopo aver lottato con una manciata di monetine ribelli, dopo venti minuti venti di orribili, trite pubblicità (esclusa quella di Mokarabia, quella è davvero originale), dopo una decina di trailers di film tutto sommato appetibili (Last Vegas, per dirne uno), possiamo finalmente addentrarci nella recensione.

Iniziamo col dire che condensare un libro intero in tre ore di film è un’impresa difficile. Talmente difficile che stavolta non ci hanno nemmeno provato. Se avete letto il libro, questo film, per quanto fedele, vi sembrerà alquanto vuoto. Vi sono tutte le scene più importanti, alcune rese davvero molto bene (la visita di Donald Sutherland a Jennifer Lawrence all’inizio del film vale il prezzo del biglietto), ma la maggior parte di quei piccoli particolari che rendevano il libro avvincente non ci sono. Mancano del tutto anche la cappa di pessimismo e la graduale discesa nella psicosi della protagonista, che nel libro tanta parte occupavano. Ma, per ogni cosa che manca ce n’è una che risplende.

Gli attori sono come sempre in palla, ma a causa del doppiaggio non ho potuto farmi un’idea più di tanto. Inutile star qui a fare l’elenco, poiché sono per la maggior parte gli stessi del primo. Val la pena di spendere una parola solo sulle tre addizioni più importanti: Philip Seymour Hoffman nel ruolo di Plutarch Heavensbee, più viscido che mai; Sam Claflin nel ruolo di Finnick, bello, impossibile, espressivo nei pochi momenti a disposizione (molta della crescita del suo personaggio è tagliata rispetto al libro); Jena Malone nel ruolo di Johanna, una meravigliosa gattina attaccata alle balle, ‘nuff said. Il buon Liam Hemsworth è come al solito espressivo come un cippo tombale vichingo ed altrettanto utile per il buon proseguimento della trama: sospendo nuovamente il giudizio, sperando che gli diano un po’ più di screen-time nei prossimi due film (e se seguono i libri, dovrebbero).

Gli effetti visivi sono molto buoni, ed anche Elizabeth Banks diventa più bella, in parte grazie ai vestiti di McQueen ed in parte grazie al trucco un po’ meno pesante, che lascia trasparire la sua bellezza e la sua espressività. Le musiche sono buone e meno asettiche che nel primo film.

Nel complesso un film godibile, leggero nonostante le quasi tre ore di proiezione, adatto a tutta la famiglia (non proprio, ma si vede comunque meno sangue che nel primo), che lascia con un sano appetito per il prossimo sequel.